WhatsApp, non scrivere sui gruppi | Per un nonnulla scatta il reato di diffamazione
Lo svela una sentenza: basta una parola sbagliata a renderti punibile per legge. Un ripasso della “netiquette”, per non fregarci da soli.
Un semplice messaggio può rovinarti la vita. Una frase del genere, un tempo impensabile, oggi è una realtà quotidiana per molti soggetti.
Nell’interfacciarci online con amici, parenti o conoscenti talvolta decidiamo di esprimerci in maniera inappropriata a causa di un momento di particolare intensità emotiva e forti della sicurezza del nostro spazio online.
La verità è che non dovremmo cedere alle provocazioni o alla rabbia, e a dimostrarlo è un caso che sta facendo discutere tutta Italia.
A giudicarlo è stato la Corte di Cassazione, che ha ritenuto che tra le parti coinvolte la vittima non fosse la persona a cui erano state indirizzate le “provocazioni”: ecco cosa è accaduto.
Il precedente legale tra Whatsapp e Facebook
Nell’era digitale, dove le comunicazioni avvengono sempre più frequentemente attraverso piattaforme online, la questione della diffamazione via chat è diventata centrale nei tribunali. Un recente caso, giunto fino alla Corte di Cassazione, solleva interrogativi sulla responsabilità legale di un individuo che ha offeso un’altra persona tramite i social media. Il caso in questione ha origine da una discussione nel gruppo WhatsApp di un gruppo di mamme di alcuni compagni di scuola, in cui una madre, dopo aver ricevuto un messaggio che suggeriva di rimproverare il proprio figlio a causa di alcuni suoi comporamenti, ha reagito pubblicamente su Facebook. La donna ha denigrato la madre che aveva inviato il messaggio, accusandola di essere insensibile e di cercare di trarre vantaggio dagli altri partecipanti al gruppo.
La Corte d’appello di Salerno aveva inizialmente ritenuto che le frasi pubblicate costituissero un reato di diffamazione, dato il tono offensivo e il riferimento a fatti non veri. Inoltre, la Corte aveva escluso la causa di esclusione della punibilità basata sulla particolare tenuità del fatto. Tuttavia, la madre imputata ha presentato ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, invocando la causa di esclusione della punibilità prevista dall’articolo 599 del codice penale. La difesa sostenne che le frasi denigratorie erano state scritte in risposta al fatto ingiusto subito dalla madre imputata, il quale aveva generato un stato d’ira e una reazione immediata.
Ricorso respinto: non ci sono prove per la parte accusata
La Corte di Cassazione, nella sua sentenza n. 789/2024, ha respinto il ricorso, spiegando che la causa di non punibilità della provocazione si applica solo quando il fatto ingiusto può essere valutato oggettivamente come illecito. La Corte ha sottolineato che la lesione delle regole di civile convivenza deve essere apprezzabile attraverso un giudizio oggettivo, e la mera percezione negativa dell’agente non è sufficiente. La Corte ha analizzato il caso specifico, sostenendo che la richiesta di contenere il comportamento vivace del bambino e di portarlo via dalla festa non poteva essere considerata ingiusta. Inoltre, non c’era prova che la madre che aveva inviato il messaggio nel gruppo WhatsApp avesse offeso in alcun modo la persona imputata.
Questa decisione della Cassazione sottolinea l’importanza di valutare gli eventi in modo oggettivo e non solo in base alla percezione emotiva della persona che si ritrova a ricevere messaggi. Mentre la diffamazione online è una questione sempre più rilevante, il sistema legale deve trovare un equilibrio tra la tutela della reputazione delle persone e la libertà di esprimere opinioni, anche se scomode o impopolari.